Un installatore di utopie positive.

Oggi ho preso una lunga, lunghissima pausa, ho pulito lo studio. Voi non avete idea di quanto sporca un architetto che progetta ceramiche.

Qualcuno dalle finestre aperte sulla strada mi ha visto stendere tre metri di carta da schizzo sopra i tavoli da disegno e iniziare a canticchiare tra me e me.

Ieri avevo disegnato per ore, serata compresa. Ed ho pensato a lungo all’architettura, ma a quella che sa di composizione, di “fatica” come diceva Carlo Aymonino.

Ho pensato ai monumenti, alle fontane, e mi tornavano a mente i segni dell’architettura che ho disegnato fino allo stremo delle forze per capirne il significato, la sintesi nella profonda e corretta sintassi, ho pensato a Kahn, a Scarpa, Mies, all’ingenuità coinvolgente di Van Doesburg, a Paolo Soleri, ho pensato a Eisenman di quando “aveva i calzoni corti” come dice il mio prof Paolo Merlini, ho pensato a Sverre Fehn, Asplund e Aalto, un po’ anche a Pietro Porcinai perchè vorrei tanto disegnare una fontana, e forse ancora di più vorrei disegnare una tomba. 

Ho disegnato macchine impossibili, tutte che caricano aria, acqua, suoni, luce e vento dall’alto, proprio come l’architettura, quasi trenta metri in altezza di forme su ruote e metafore dell’architettura stessa, di quel paesaggio in movimento che vorrei vedere un giorno.

Un po’ monumenti lo sono, anche paradossali se vogliamo, per rimanere là dove nessuno le potrà toccare, forse dove nemmeno io lo potrò fare.

Il bello è che vivo nel corpo di un architetto e faccio più architettura di chi sta facendo case, sono un installatore di utopie positive.

Utopia, una città dove per strada si può crescere con l’architettura, dove di notte non serve l’illuminazione stradale, dove i ladri non esistono e nemmeno le puttane. 

Le macchine stanno, le macchine vanno.

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